«Bitonto come Scampia». Spaccio alla zona 167, in 50 finiscono alla sbarra
Quasi tutti hanno scelto di essere processati con il rito abbreviato. Il Comune non è ancora parte civile, ma c'è tempo sino al 3 novembre
sabato 8 ottobre 2022
9.33
Sono 50 gli imputati del clan Conte finiti alla sbarra dopo l'operazione "Market Drugs". Dinanzi alla giudice dell'udienza preliminare del Tribunale di Bari, Susanna De Felice, capi, vedette e spacciatori, operanti nella zona 167 di Bitonto, la «Scampia» del nord barese, hanno chiesto di essere processati con il rito abbreviato.
Il pubblico ministero antimafia Ettore Cardinali ne discuterà le posizioni a dicembre, concludendo con la sua requisitoria. Nella prima udienza, nessuna delle parti giudicate offese dalla Procura della Repubblica del capoluogo, si è costituita parte civile nel processo contro il clan Conte. Tra queste spicca anche il Comune di Bitonto. Ma c'è ancora tempo - non tanto - per farlo: il termine è fissato al prossimo 3 novembre, data in cui è stata fissata la prossima udienza interlocutoria.
Agli imputati, tra cui pure il presunto boss Domenico Conte, sono contestati, a vario titolo, i reati di associazione per delinquere finalizzata al traffico e alla illecita commercializzazione di sostanza stupefacente, aggravata dal metodo mafioso. «Una dimensione fortificata con tutta una serie di iniziative, anche tecnologiche, per cui il capo, da casa sua, controllava l'operato dei suoi» commentò il prefetto Francesco Messina, direttore centrale dell'Anticrimine, durante la conferenza.
Secondo gli investigatori, il boss «controllava da remoto ogni tipo di attività: aveva una vera centrale che gli consentiva, attraverso l'installazione di telecamere di videosorveglianza, di tenere sotto osservazione sia i suoi dipendenti, che l'attività esterna». Al servizio del clan, vedette in strada, donne che custodivano la droga e il denaro, i pusher - anche minorenni - nelle due piazze controllate dal clan, il borgo antico e la periferica zona 167, base logistica dell'organizzazione criminale.
Il «personale» di quella che poteva essere definita quasi «un'azienda», era ricompensato con stipendi dai 500 ai 1500 euro settimanali e regalie. Il giro d'affari era di 30mila euro al giorno per circa 40 chilogrammi di stupefacenti smerciati tra cocaina, hashish, marijuana e amnesia, «un'erba che ti fulmina il cervello». Inoltre, si era avviata un'attività «di marketing importante», affermò Messina, una sorta di welfare al territorio. Veniva introdotta droga di grande qualità a prezzi bassi.
«E poi si era stabilito che, se al tossicodipendente, veniva sequestrata la dose, bisognava dargliene un'altra. In questo modo fidelizzava i clienti». C'erano, dunque, dei controlli di difesa «attiva e passiva, che rendevano difficile l'intervento nella flagranza». I fatti risalgono agli anni 2013-2018, il 3 novembre si torna in aula.
Il pubblico ministero antimafia Ettore Cardinali ne discuterà le posizioni a dicembre, concludendo con la sua requisitoria. Nella prima udienza, nessuna delle parti giudicate offese dalla Procura della Repubblica del capoluogo, si è costituita parte civile nel processo contro il clan Conte. Tra queste spicca anche il Comune di Bitonto. Ma c'è ancora tempo - non tanto - per farlo: il termine è fissato al prossimo 3 novembre, data in cui è stata fissata la prossima udienza interlocutoria.
Agli imputati, tra cui pure il presunto boss Domenico Conte, sono contestati, a vario titolo, i reati di associazione per delinquere finalizzata al traffico e alla illecita commercializzazione di sostanza stupefacente, aggravata dal metodo mafioso. «Una dimensione fortificata con tutta una serie di iniziative, anche tecnologiche, per cui il capo, da casa sua, controllava l'operato dei suoi» commentò il prefetto Francesco Messina, direttore centrale dell'Anticrimine, durante la conferenza.
Secondo gli investigatori, il boss «controllava da remoto ogni tipo di attività: aveva una vera centrale che gli consentiva, attraverso l'installazione di telecamere di videosorveglianza, di tenere sotto osservazione sia i suoi dipendenti, che l'attività esterna». Al servizio del clan, vedette in strada, donne che custodivano la droga e il denaro, i pusher - anche minorenni - nelle due piazze controllate dal clan, il borgo antico e la periferica zona 167, base logistica dell'organizzazione criminale.
Il «personale» di quella che poteva essere definita quasi «un'azienda», era ricompensato con stipendi dai 500 ai 1500 euro settimanali e regalie. Il giro d'affari era di 30mila euro al giorno per circa 40 chilogrammi di stupefacenti smerciati tra cocaina, hashish, marijuana e amnesia, «un'erba che ti fulmina il cervello». Inoltre, si era avviata un'attività «di marketing importante», affermò Messina, una sorta di welfare al territorio. Veniva introdotta droga di grande qualità a prezzi bassi.
«E poi si era stabilito che, se al tossicodipendente, veniva sequestrata la dose, bisognava dargliene un'altra. In questo modo fidelizzava i clienti». C'erano, dunque, dei controlli di difesa «attiva e passiva, che rendevano difficile l'intervento nella flagranza». I fatti risalgono agli anni 2013-2018, il 3 novembre si torna in aula.