Definitivamente allo Stato l'impero di Emanuele Sicolo
Beni per oltre un milione di euro. Anche due pizzerie di nuovo allestimento nel centro della città di Bitonto
sabato 4 giugno 2022
10.55
Finito sotto sequestro penale nel 2017 e confiscato nel 2019, adesso quel patrimonio, fra cui due noti ristoranti a Palese e Santo Spirito, uno dei quali con annesso parco giochi, e due pizzerie di nuovo allestimento nel centro della città di Bitonto, passa definitivamente nelle mani dello Stato.
Si tratta di beni mobili e immobili, complessi aziendali e disponibilità finanziarie, oltre a due attività operanti nel servizio alle imprese, due immobili, quattro autovetture e diversi rapporti bancari e finanziari, già sottoposti a sequestro e scaturiti da indagini svolte dagli uomini della Dia del valore complessivo di oltre un milione di euro, riconducibili ad Emanuele Sicolo, 52enne imprenditore di Bitonto, al centro della maxi operazione denominata "Levante" sul presunto riciclaggio di denaro derivante da attività illecite di evasione fiscale, condotta, lo scorso febbraio, dalla Guardia di Finanza e dalla Direzione Investigativa Antimafia.
È stata proprio quest'ultima ad eseguire, nei giorni scorsi, il dispositivo di sentenza emanato dalla quinta sezione penale della Corte Suprema di Cassazione di Roma che ha dunque confermato la misura di prevenzione patrimoniale emessa, tre anni prima, dal Tribunale di Bari nei riguardi dell'uomo, attualmente detenuto nel penitenziario di Lecce.
«L'esecuzione del provvedimento - scrive la Dia - rappresenta l'epilogo della complessa attività investigativa finalizzata alla ricostruzione del profilo di pericolosità sociale del preposto e all'individuazione degli asset patrimoniali e finanziari riconducibili al medesimo e ai componenti del proprio nucleo familiare».
Affiliato dalla metà degli anni '90 a organizzazioni criminali di Bitonto e dell'hinterland, il 52enne è risultato avere contatti anche con clan baresi ben più conosciuti (il clan Parisi e il clan Capriati), come testimonia la condanna a suo carico, in concorso con altri appartenenti a quell'organizzazione mafiosa, per l'omicidio di Michele Manzari, appartenente all'omonima famiglia attiva nel quartiere San Paolo e contrapposta al clan Capriati della città vecchia, secondo quanto appurato dagli inquirenti.
L'uomo, ritenuto nell'orbita del clan Parisi di Bari, a cui risulta affiliato, era stato già arrestato nell'ambito di "Do ut Des", l'attività della Polizia di Stato che a marzo 2016 portò all'arresto di 31 persone, al centro di un sodalizio di stampo mafioso dedito alle estorsioni nei confronti di imprenditori, diretto da Savino Parisi, figura storica della criminalità organizzata barese con quartier generale nel rione Japigia di Bari. Per lui, nel corso del processo di primo grado, l'accusa ha chiesto la condanna più elevata: 20 anni di reclusione.
Nel 2018, è stato arrestato dalla Dia di Bari nella flagranza del reato di riciclaggio aggravato, essendo stato fermato, con altre due persone, a bordo di un'auto, con la somma di oltre 300mila euro, denaro ritenuto provento di attività criminale.
«Pagnotta», nuovamente tratto in arresto a febbraio scorso nell'operazione "Levante" che ha portato all'esecuzione di 75 misure cautelari, tra cui anche avvocati e pubblici ufficiali, perché ritenuto dagli inquirenti come il «capo e l'organizzatore dell'associazione per delinquere» è stato riconosciuto come «un soggetto connotato da pericolosità sociale in ragione dei suoi numerosissimi precedenti per reati violenti oppure commessi per ragioni di profitto, nonché - spiegano dalla Dia di Bari - per una condanna per il reato di associazione mafiosa».
E proprio alla luce del quadro probatorio acquisito in sede penale, nei confronti del 52enne è stata valutata la «sussistenza di indizi su cui fondare un giudizio prognostico sfavorevole circa la pericolosità, in ragione della propensione a delinquere apparsa strutturata e costante in un lungo arco temporale», fanno sapere ancora gli investigatori baresi.
A confermare la misura di prevenzione patrimoniale del Tribunale di Bari è stata una sentenza della Corte di Cassazione, quale risultato di articolate e complesse indagini patrimoniali e finanziarie finalizzate all'aggressione dei patrimoni illeciti accumulati negli anni, che hanno permesso agli inquirenti di «accertare l'ampia sproporzione tra il patrimonio e la capacità reddituale dell'uomo e dei suoi familiari». Il provvedimento di confisca ha interessato numerose unità immobiliari, autovetture, quote societarie di compendi aziendali e conti correnti.
«Questo risultato - concludono - si inserisce nelle attività istituzionali della Direzione Investigativa Antimafia finalizzate all'aggressione delle illecite ricchezze acquisite e riconducibili, direttamente o indirettamente, a contesti delinquenziali».
Si tratta di beni mobili e immobili, complessi aziendali e disponibilità finanziarie, oltre a due attività operanti nel servizio alle imprese, due immobili, quattro autovetture e diversi rapporti bancari e finanziari, già sottoposti a sequestro e scaturiti da indagini svolte dagli uomini della Dia del valore complessivo di oltre un milione di euro, riconducibili ad Emanuele Sicolo, 52enne imprenditore di Bitonto, al centro della maxi operazione denominata "Levante" sul presunto riciclaggio di denaro derivante da attività illecite di evasione fiscale, condotta, lo scorso febbraio, dalla Guardia di Finanza e dalla Direzione Investigativa Antimafia.
È stata proprio quest'ultima ad eseguire, nei giorni scorsi, il dispositivo di sentenza emanato dalla quinta sezione penale della Corte Suprema di Cassazione di Roma che ha dunque confermato la misura di prevenzione patrimoniale emessa, tre anni prima, dal Tribunale di Bari nei riguardi dell'uomo, attualmente detenuto nel penitenziario di Lecce.
«L'esecuzione del provvedimento - scrive la Dia - rappresenta l'epilogo della complessa attività investigativa finalizzata alla ricostruzione del profilo di pericolosità sociale del preposto e all'individuazione degli asset patrimoniali e finanziari riconducibili al medesimo e ai componenti del proprio nucleo familiare».
Affiliato dalla metà degli anni '90 a organizzazioni criminali di Bitonto e dell'hinterland, il 52enne è risultato avere contatti anche con clan baresi ben più conosciuti (il clan Parisi e il clan Capriati), come testimonia la condanna a suo carico, in concorso con altri appartenenti a quell'organizzazione mafiosa, per l'omicidio di Michele Manzari, appartenente all'omonima famiglia attiva nel quartiere San Paolo e contrapposta al clan Capriati della città vecchia, secondo quanto appurato dagli inquirenti.
L'uomo, ritenuto nell'orbita del clan Parisi di Bari, a cui risulta affiliato, era stato già arrestato nell'ambito di "Do ut Des", l'attività della Polizia di Stato che a marzo 2016 portò all'arresto di 31 persone, al centro di un sodalizio di stampo mafioso dedito alle estorsioni nei confronti di imprenditori, diretto da Savino Parisi, figura storica della criminalità organizzata barese con quartier generale nel rione Japigia di Bari. Per lui, nel corso del processo di primo grado, l'accusa ha chiesto la condanna più elevata: 20 anni di reclusione.
Nel 2018, è stato arrestato dalla Dia di Bari nella flagranza del reato di riciclaggio aggravato, essendo stato fermato, con altre due persone, a bordo di un'auto, con la somma di oltre 300mila euro, denaro ritenuto provento di attività criminale.
«Pagnotta», nuovamente tratto in arresto a febbraio scorso nell'operazione "Levante" che ha portato all'esecuzione di 75 misure cautelari, tra cui anche avvocati e pubblici ufficiali, perché ritenuto dagli inquirenti come il «capo e l'organizzatore dell'associazione per delinquere» è stato riconosciuto come «un soggetto connotato da pericolosità sociale in ragione dei suoi numerosissimi precedenti per reati violenti oppure commessi per ragioni di profitto, nonché - spiegano dalla Dia di Bari - per una condanna per il reato di associazione mafiosa».
E proprio alla luce del quadro probatorio acquisito in sede penale, nei confronti del 52enne è stata valutata la «sussistenza di indizi su cui fondare un giudizio prognostico sfavorevole circa la pericolosità, in ragione della propensione a delinquere apparsa strutturata e costante in un lungo arco temporale», fanno sapere ancora gli investigatori baresi.
A confermare la misura di prevenzione patrimoniale del Tribunale di Bari è stata una sentenza della Corte di Cassazione, quale risultato di articolate e complesse indagini patrimoniali e finanziarie finalizzate all'aggressione dei patrimoni illeciti accumulati negli anni, che hanno permesso agli inquirenti di «accertare l'ampia sproporzione tra il patrimonio e la capacità reddituale dell'uomo e dei suoi familiari». Il provvedimento di confisca ha interessato numerose unità immobiliari, autovetture, quote societarie di compendi aziendali e conti correnti.
«Questo risultato - concludono - si inserisce nelle attività istituzionali della Direzione Investigativa Antimafia finalizzate all'aggressione delle illecite ricchezze acquisite e riconducibili, direttamente o indirettamente, a contesti delinquenziali».