Cronaca
«Ergastolo annullato», ma Giuseppe Digiacomantonio torna in carcere
Il 30enne arrestato per una richiesta estorsiva ai danni di un imprenditore di Grumo: 15mila euro mensili in cambio di "protezione"
Bitonto - sabato 11 gennaio 2020
19.25
La libertà di Giuseppe Digiacomantonio è durata soli 73 giorni. Il fratellastro di Francesco Colasuonno, a capo del clan Cipriano di Bitonto, uscito dal carcere il 29 ottobre scorso, è stato ripreso ieri mattina dai Carabinieri con l'accusa di tentata estorsione aggravata dal metodo mafioso.
Il 30enne "Giuseppe Cipriano", a cui la Cassazione aveva annullato con rinvio la sentenza con la quale la Corte di Assise di Appello di Bari aveva confermato tre condanne, due all'ergastolo e una a 30 anni di reclusione, inflitte a tre presunti autori di due omicidi e un tentato omicidio commessi a Bitonto nel luglio 2007, si è mosso dalla città bitontina, spingendosi nella vicina Grumo Appula dove avrebbe offerto «protezione mafiosa».
I fatti che hanno portato agli arresti di ieri mattina (in carcere sono finiti altri tre uomini, tra cui Michele Parisi, 52enne di Bari fratello del capo clan Savino Parisi di Japigia, nda), si sarebbero consumati prima di Natale, quando Giuseppe Digiacomantonio e Roberto Marchello avrebbero offerto «protezione mafiosa», al costo di 15mila euro mensili ad un imprenditore di Grumo Appula titolare di un centro scommesse, il quale li ha poi denunciati.
La presunta vittima ha denunciato la richiesta estorsiva il 21 dicembre e ha detto di aver ricevuto «la preliminare visita di Giuseppe Digiacomantonio», in quella occasione accompagnato da Roberto Marchello, 43enne di Sannicandro di Bari. Materialmente la somma sarebbe stata chiesta proprio dal 30enne di Bitonto, che «si sarebbe presentato quale referente delinquenziale in quel territorio», affermando «sono Giuseppe Cipriano di Bitonto».
Per eludere la richiesta di denaro, la vittima avrebbe tentato di far intervenire il clan di Japigia ottenendo, grazie all'intercessione di Fabio Fiore, un incontro con Michele Parisi. Il tentativo di mediazione sarebbe fallito («Giuseppe Cipriano va rispettato» avrebbe detto all'imprenditore) e l'intervento del clan Parisi aveva fatto sì che la richiesta estorsiva scendesse a 3mila euro al mese, garantendosi 100 euro per ogni slot machine installata.
A quel punto l'imprenditore ha deciso di rivolgersi ad una associazione Antiracket e, su loro sollecitazione, di denunciare. L'indagine del Nucleo Investigativo del Reparto Operativo dei Carabinieri di Bari, coordinata dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Bari, ha portato all'arresto dei quattro. La misura cautelare è stata emessa dal giudice per le indagini preliminari Luigia Lambriola del Tribunale di Bari. Giuseppe Digiacomantonio si trova in carcere.
E questa volta, a quanto pare, non ci sono stati errori. Fino al 28 ottobre scorso il 30enne bitontino era un ergastolano. Poi la Cassazione ha annullato con rinvio la sentenza con la quale nel gennaio 2018 la Corte di Assise di Appello di Bari aveva confermato tre condanne, due all'ergastolo e una a 30 anni di reclusione. E così Giuseppe Digiacomantonio, il 29 ottobre scorso, è tornato in libertà, per decorrenza dei termini di custodia cautelare preventiva.
Per ricucire la vicenda bisogna tornare al 20 luglio 2007: i delitti contestati sono l'omicidio premeditato di Vito Napoli, ritenuto all'epoca elemento del clan Conte, il tentato omicidio del boss bitontino Domenico Conte, l'omicidio e l'occultamento del cadavere di Giuseppe Dellino, affiliato al clan Strisciuglio, lo stesso degli imputati, ammazzato secondo l'accusa perché ritenuto inaffidabile. Il suo corpo fu buttato in un pozzo e ritrovato anni dopo.
In primo ed in secondo grado Giuseppe Digiacomantonio e Salvatore Ficarelli erano stati condannati all'ergastolo, Giosuè Perrelli a 30 anni di reclusione. Ora i tre imputati dovranno essere nuovamente processati dalla Corte di Assise di Appello. Il 30enne era tornato in libertà. E nella città vecchia, feudo storico del clan Cipriano, il suo ritorno non era passato inosservato, salutato dai fuochi d'artificio che aveva fatto indignare persino Michele Abbaticchio.
Giuseppe Digiacomantonio, in questi 73 giorni di libertà, avrebbe offerto «protezione», al costo di 15mila euro mensili ad un imprenditore di Grumo Appula, che lo ha poi denunciato. Si è così stabilito che c'è ancora un'accusa che pende sul suo capo: tentata estorsione. Aggravata dal metodo mafioso.
Il 30enne "Giuseppe Cipriano", a cui la Cassazione aveva annullato con rinvio la sentenza con la quale la Corte di Assise di Appello di Bari aveva confermato tre condanne, due all'ergastolo e una a 30 anni di reclusione, inflitte a tre presunti autori di due omicidi e un tentato omicidio commessi a Bitonto nel luglio 2007, si è mosso dalla città bitontina, spingendosi nella vicina Grumo Appula dove avrebbe offerto «protezione mafiosa».
I fatti che hanno portato agli arresti di ieri mattina (in carcere sono finiti altri tre uomini, tra cui Michele Parisi, 52enne di Bari fratello del capo clan Savino Parisi di Japigia, nda), si sarebbero consumati prima di Natale, quando Giuseppe Digiacomantonio e Roberto Marchello avrebbero offerto «protezione mafiosa», al costo di 15mila euro mensili ad un imprenditore di Grumo Appula titolare di un centro scommesse, il quale li ha poi denunciati.
La presunta vittima ha denunciato la richiesta estorsiva il 21 dicembre e ha detto di aver ricevuto «la preliminare visita di Giuseppe Digiacomantonio», in quella occasione accompagnato da Roberto Marchello, 43enne di Sannicandro di Bari. Materialmente la somma sarebbe stata chiesta proprio dal 30enne di Bitonto, che «si sarebbe presentato quale referente delinquenziale in quel territorio», affermando «sono Giuseppe Cipriano di Bitonto».
Per eludere la richiesta di denaro, la vittima avrebbe tentato di far intervenire il clan di Japigia ottenendo, grazie all'intercessione di Fabio Fiore, un incontro con Michele Parisi. Il tentativo di mediazione sarebbe fallito («Giuseppe Cipriano va rispettato» avrebbe detto all'imprenditore) e l'intervento del clan Parisi aveva fatto sì che la richiesta estorsiva scendesse a 3mila euro al mese, garantendosi 100 euro per ogni slot machine installata.
A quel punto l'imprenditore ha deciso di rivolgersi ad una associazione Antiracket e, su loro sollecitazione, di denunciare. L'indagine del Nucleo Investigativo del Reparto Operativo dei Carabinieri di Bari, coordinata dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Bari, ha portato all'arresto dei quattro. La misura cautelare è stata emessa dal giudice per le indagini preliminari Luigia Lambriola del Tribunale di Bari. Giuseppe Digiacomantonio si trova in carcere.
E questa volta, a quanto pare, non ci sono stati errori. Fino al 28 ottobre scorso il 30enne bitontino era un ergastolano. Poi la Cassazione ha annullato con rinvio la sentenza con la quale nel gennaio 2018 la Corte di Assise di Appello di Bari aveva confermato tre condanne, due all'ergastolo e una a 30 anni di reclusione. E così Giuseppe Digiacomantonio, il 29 ottobre scorso, è tornato in libertà, per decorrenza dei termini di custodia cautelare preventiva.
Per ricucire la vicenda bisogna tornare al 20 luglio 2007: i delitti contestati sono l'omicidio premeditato di Vito Napoli, ritenuto all'epoca elemento del clan Conte, il tentato omicidio del boss bitontino Domenico Conte, l'omicidio e l'occultamento del cadavere di Giuseppe Dellino, affiliato al clan Strisciuglio, lo stesso degli imputati, ammazzato secondo l'accusa perché ritenuto inaffidabile. Il suo corpo fu buttato in un pozzo e ritrovato anni dopo.
In primo ed in secondo grado Giuseppe Digiacomantonio e Salvatore Ficarelli erano stati condannati all'ergastolo, Giosuè Perrelli a 30 anni di reclusione. Ora i tre imputati dovranno essere nuovamente processati dalla Corte di Assise di Appello. Il 30enne era tornato in libertà. E nella città vecchia, feudo storico del clan Cipriano, il suo ritorno non era passato inosservato, salutato dai fuochi d'artificio che aveva fatto indignare persino Michele Abbaticchio.
Giuseppe Digiacomantonio, in questi 73 giorni di libertà, avrebbe offerto «protezione», al costo di 15mila euro mensili ad un imprenditore di Grumo Appula, che lo ha poi denunciato. Si è così stabilito che c'è ancora un'accusa che pende sul suo capo: tentata estorsione. Aggravata dal metodo mafioso.