Cronaca
«Fabbrica della droga a Bitonto», la Procura chiede 43 condanne per il clan Conte
La pena più alta, 20 anni di reclusione, è stata chiesta per Domenico Conte e per altri quattro imputati
Bitonto - giovedì 1 dicembre 2022
15.27
La Procura della Repubblica di Bari ha chiesto 43 condanne, a pene comprese fra 20 anni e 2 anni e 2 mesi di reclusione, per i presunti esponenti del clan Conte a processo, con il rito abbreviato, con l'accusa di aver creato una fabbrica della droga alla periferia di Bitonto, nella zona 167 e nel centro storico della cittadina.
Gli imputati sono accusati a vario titolo dei reati di associazione mafiosa e sono ritenuti componenti e figure di spicco di un'organizzazione criminale finalizzata al compimento di una serie di reati. La pena più alta, a 20 anni di reclusione, è stata invocata per Domenico Conte, «Mimm u negr», al vertice del clan. Il pubblico ministero antimafia Ettore Cardinali, inoltre, ha chiesto 20 anni di reclusione anche per Mario D'Elia, Francesco Bonasia, Damiano Giordano e Giovanni Palmieri.
L'operazione fra Bari e Bitonto, denominata "Market Drugs", in cui furono arrestate 43 persone risale al 21 febbraio scorso, col coinvolgimento di oltre 300 agenti della Polizia di Stato. Secondo l'accusa, gli indagati avevano costituito, diretto e partecipato a un'associazione, il clan Conte, quale propaggine a Bitonto del clan Capriati di Bari, finalizzata alla cessione di droga in due distinte piazze di spaccio: la prima era in via Pertini, la seconda, di nuova costituzione, nel borgo antico.
Agli imputati, infatti, tra cui anche il boss Domenico Conte, sono contestati, a vario titolo, i reati di associazione per delinquere finalizzata al traffico e alla illecita commercializzazione di sostanza stupefacente, aggravata dal metodo mafioso. «Una dimensione fortificata con tutta una serie di iniziative, anche tecnologiche, per cui il capo, dalla sua casa, controllava l'operato dei suoi» commentò il prefetto Francesco Messina, direttore centrale dell'Anticrimine, durante la conferenza.
Secondo gli investigatori, il boss «controllava da remoto ogni tipo di attività: aveva una vera centrale che gli consentiva, attraverso l'installazione di telecamere di videosorveglianza, di tenere sotto osservazione sia i suoi dipendenti, che l'attività esterna». Al servizio del clan, vedette in strada, donne che custodivano la droga e il denaro, i pusher - anche minorenni - nelle due piazze controllate dal clan, il borgo antico e la periferica zona 167, base logistica dell'organizzazione criminale.
Il «personale» di quella che poteva essere definita quasi «un'azienda», era ricompensato con stipendi dai 500 ai 1.500 euro settimanali e regalie. Il giro d'affari era di 30mila euro al giorno per circa 40 chilogrammi di stupefacenti smerciati tra cocaina, hashish, marijuana e l'amnesia, «un'erba che ti fulmina il cervello»
Gli imputati sono accusati a vario titolo dei reati di associazione mafiosa e sono ritenuti componenti e figure di spicco di un'organizzazione criminale finalizzata al compimento di una serie di reati. La pena più alta, a 20 anni di reclusione, è stata invocata per Domenico Conte, «Mimm u negr», al vertice del clan. Il pubblico ministero antimafia Ettore Cardinali, inoltre, ha chiesto 20 anni di reclusione anche per Mario D'Elia, Francesco Bonasia, Damiano Giordano e Giovanni Palmieri.
L'operazione fra Bari e Bitonto, denominata "Market Drugs", in cui furono arrestate 43 persone risale al 21 febbraio scorso, col coinvolgimento di oltre 300 agenti della Polizia di Stato. Secondo l'accusa, gli indagati avevano costituito, diretto e partecipato a un'associazione, il clan Conte, quale propaggine a Bitonto del clan Capriati di Bari, finalizzata alla cessione di droga in due distinte piazze di spaccio: la prima era in via Pertini, la seconda, di nuova costituzione, nel borgo antico.
Agli imputati, infatti, tra cui anche il boss Domenico Conte, sono contestati, a vario titolo, i reati di associazione per delinquere finalizzata al traffico e alla illecita commercializzazione di sostanza stupefacente, aggravata dal metodo mafioso. «Una dimensione fortificata con tutta una serie di iniziative, anche tecnologiche, per cui il capo, dalla sua casa, controllava l'operato dei suoi» commentò il prefetto Francesco Messina, direttore centrale dell'Anticrimine, durante la conferenza.
Secondo gli investigatori, il boss «controllava da remoto ogni tipo di attività: aveva una vera centrale che gli consentiva, attraverso l'installazione di telecamere di videosorveglianza, di tenere sotto osservazione sia i suoi dipendenti, che l'attività esterna». Al servizio del clan, vedette in strada, donne che custodivano la droga e il denaro, i pusher - anche minorenni - nelle due piazze controllate dal clan, il borgo antico e la periferica zona 167, base logistica dell'organizzazione criminale.
Il «personale» di quella che poteva essere definita quasi «un'azienda», era ricompensato con stipendi dai 500 ai 1.500 euro settimanali e regalie. Il giro d'affari era di 30mila euro al giorno per circa 40 chilogrammi di stupefacenti smerciati tra cocaina, hashish, marijuana e l'amnesia, «un'erba che ti fulmina il cervello»