Cronaca
Il linguaggio in codice dei pusher: "Barbara" era l'eroina, "Angela" la cocaina
Un pentito ha spiegato come il guadagno maggiore i Cipriano «l'hanno sull'eroina, non venduta a Bitonto per non creare problemi»
Bitonto - giovedì 23 novembre 2023
13.45
Gli stupefacenti si ordinavano al telefono. Nelle conversazioni si usava un linguaggio criptico, ma in realtà la costola del clan Cipriano di Bitonto, «una struttura gerarchicamente articolata - è scritto agli atti -, composta da organizzatori, promotori, dirigenti e partecipanti», che operava su Palo del Colle si riferiva alla droga.
Gli uomini di Francesco Colasuonno, «il quale a sua volta rendicontava l'attività illecita ai vertici della consorteria criminale, inizialmente al reggente pro-tempore Felice Mongelli, poi a Giuseppe Digiacomantonio e Giuseppe Pastoressa» parlavano in codice chiamando lo stupefacente di volta in volta «allora con "Barbara", non con "Angela"», in riferimento rispettivamente alla eroina o alla cocaina o "Provolone", per indicare un danno verificatosi nella gestione dell'attività di spaccio.
Quella dei Cipriano, a Palo del Colle, era «una piazza di spaccio redditizia in cui il guadagno maggiore - ha detto il collaboratore di giustizia Leonardo Bartolomeo - lo hanno sull'eroina, quest'ultima sostanza non viene venduta a Bitonto per non creare problemi nel paese». I pusher, «con l'aggettivo "il piccolo" e "il grande", indicavano le dosi da 20 o 50 euro di cocaina, con i termini "la bianca", "bionda" o "chiara" la cocaina, mentre "una valigia" era per indicare un panetto di hashish».
Secondo le indagini, tutti gli indagati - 32, mentre sono 19 quelli finiti in carcere, ritenuti appartenenti ai Cipriano - «hanno sistematicamente usato un linguaggio criptico nel corso delle conversazioni monitorate, con il chiaro intento di eludere le eventuali investigazioni, prestando particolare attenzione a non essere troppo espliciti nelle comunicazioni oppure, addirittura, in alcune occasioni, troncavano in modo brusco la conversazione, rimandando dopo il seguito a contatti diretti».
Per gli inquirenti, diretti dall'Antimafia, «l'utilizzo di talune parole, apparentemente prive di senso o comunque fuori contesto - è scritto nell'ordinanza cautelare del giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Bari, Anna Perrelli -, rimandavano ad un preciso e condiviso codice linguistico diffuso tra cedenti e assuntori o tra i membri della associazione, decodificato grazie alle numerose attività di riscontro poste in essere dagli inquirenti a seguito dell'ascolto delle conversazioni».
Fondamentali sono state le intercettazioni telefoniche e la capacità degli investigatori di decifrare il linguaggio criptico degli indagati. «Tant'è - annota la giudice - che le conversazioni di utilità indiziaria sono quelle in cui il grado di allusività era talmente elevato da apparire innaturale, frutto di una cosciente "codificazione"».
Gli uomini di Francesco Colasuonno, «il quale a sua volta rendicontava l'attività illecita ai vertici della consorteria criminale, inizialmente al reggente pro-tempore Felice Mongelli, poi a Giuseppe Digiacomantonio e Giuseppe Pastoressa» parlavano in codice chiamando lo stupefacente di volta in volta «allora con "Barbara", non con "Angela"», in riferimento rispettivamente alla eroina o alla cocaina o "Provolone", per indicare un danno verificatosi nella gestione dell'attività di spaccio.
Quella dei Cipriano, a Palo del Colle, era «una piazza di spaccio redditizia in cui il guadagno maggiore - ha detto il collaboratore di giustizia Leonardo Bartolomeo - lo hanno sull'eroina, quest'ultima sostanza non viene venduta a Bitonto per non creare problemi nel paese». I pusher, «con l'aggettivo "il piccolo" e "il grande", indicavano le dosi da 20 o 50 euro di cocaina, con i termini "la bianca", "bionda" o "chiara" la cocaina, mentre "una valigia" era per indicare un panetto di hashish».
Secondo le indagini, tutti gli indagati - 32, mentre sono 19 quelli finiti in carcere, ritenuti appartenenti ai Cipriano - «hanno sistematicamente usato un linguaggio criptico nel corso delle conversazioni monitorate, con il chiaro intento di eludere le eventuali investigazioni, prestando particolare attenzione a non essere troppo espliciti nelle comunicazioni oppure, addirittura, in alcune occasioni, troncavano in modo brusco la conversazione, rimandando dopo il seguito a contatti diretti».
Per gli inquirenti, diretti dall'Antimafia, «l'utilizzo di talune parole, apparentemente prive di senso o comunque fuori contesto - è scritto nell'ordinanza cautelare del giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Bari, Anna Perrelli -, rimandavano ad un preciso e condiviso codice linguistico diffuso tra cedenti e assuntori o tra i membri della associazione, decodificato grazie alle numerose attività di riscontro poste in essere dagli inquirenti a seguito dell'ascolto delle conversazioni».
Fondamentali sono state le intercettazioni telefoniche e la capacità degli investigatori di decifrare il linguaggio criptico degli indagati. «Tant'è - annota la giudice - che le conversazioni di utilità indiziaria sono quelle in cui il grado di allusività era talmente elevato da apparire innaturale, frutto di una cosciente "codificazione"».